Dopo la “medicina difensiva” la “difesa difensiva”? Attenzione Avvocati, la Suprema Corte afferma, sia pur su questione di rito, che “in presenza di un contrasto giurisprudenziale, è dovere professionale del difensore quello di agire, cautelativamente, in base all’interpretazione della norma, quand’anche non condivisa, che comporterebbe maggiori rischi per il suo cliente” (Cassazione Civile, Sezione VI – 3, Ordinanza 28 febbraio 2014 n. 4790)

Non interessa, qui, se la condotta professionale dell’avvocato della parte ricorrente per cassazione sia stata, nella specie, all’altezza o meno del compito, ogni lettore potrà farsi la propria idea.

Il grave problema posto dalla decisione in commento sta piuttosto nel principio che con essa si afferma, tanto più imperativo alla luce della coincidente affermazione, interna alla pronuncia, di assoluta supremazia della “legge della giurisprudenza”.

Nulla quaestio in punto di interpretazione delle norme, l’avvocato legge ed impara.
La Suprema Corte ha infatti riaffermato che, ai fini dell’attivazione del termine breve per l’impugnazione, è valida la notifica della sentenza nella cancelleria del giudice adito, allorchè la controparte, assistita da avvocato che esercita il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale cui egli è assegnato, abbia eletto domicilio in luogo diverso da quello in cui ha sede l’autorità adita: con la conseguenza che il ricorso è stato proposto ben oltre il termine di sessanta giorni ed è quindi tardivo ed inammissibile.

Occorre tuttavia analizzare lo specifico ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione, perchè è pregno di implicazioni ed in ogni caso indice rivelatore di una posizione culturale pericolosa, sia per l’avvocato, sia per la parte che viene assistita.

Afferma infatti la Corte regolatrice che “L’idoneità, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, della notifica della sentenza al procuratore che non abbia eletto domicilio nel luogo in cui ha sede l’autorità adita, è principio ormai definitivamente consolidato.
A prescindere dal fatto che esso era già stato in precedenza affermato e solo nel periodo 2009-2011 rimesso in discussione da pronunce a sezioni semplici, esso era stato consacrato – con espressa esclusione anche della configurabilità di un mutamento improvviso di giurisprudenza – con la richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice 20 giugno 2012, n. 10143.
Pertanto, era onere del procuratore dell’odierno ricorrente adeguarsi tempestivamente alla riaffermazione detto principio, vuoi modificando idoneamente l’elezione di domicilio, vuoi – ove a tanto non avesse voluto indursi, allora – doverosamente verificando, finchè si è protratta l’esecuzione del suo mandato difensivo, che nella cancelleria della corte di appello non vi fosse stata alcuna notifica della sentenza.
Un tale comportamento era quindi perfettamente esigibile per la chiarezza ed univocità del dictum delle Sezioni Unite, di diversi mesi anteriore alla pubblicazione della sentenza a rischio di notifica, siccome corrispondente ad una diligenza minimale per qualunque avvocato incaricato della rappresentanza in giudizio di una parte soccombente
“.

Come si vede la Cassazione dà atto dell’esistenza di un contrasto tra le sezioni semplici nel periodo antecedente, ma, rilevando che le Sezioni Unite lo avevano risolto pochi mesi prima del caso di cui si occupa, (giustamente) dichiara inammissibile il ricorso.
Senonchè aggiunge poi che “in presenza di un contrasto giurisprudenziale, è dovere professionale del difensore quello di agire, cautelativamente, in base all’interpretazione della norma, quand’anche non condivisa, che comporterebbe maggiori rischi per il suo cliente. Infatti, l’opinabilità della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo“.

Qui sta il nodo.

E’ pur vero che si tratta di decisione su questione meramente processuale, ma è del tutto evidente che viene sancita con forza la generale responsabilità professionale dell’Avvocato quante volte non si adegui alla giurisprudenza prevalente.

Come se le decisioni delle Sezioni Semplici fossero prive di valore.
Come se le Sezioni Semplici talvolta non andassero in senso contrario alle Sezioni Unite.
Come se le stesse Sezioni Unite non cambiassero a loro volta opinione, in taluni caso contraddicendosi anche a relativamente breve distanza di tempo.
Come se le sentenze della Suprema Corte venissero pubblicate, al pari delle leggi, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
Come se anche la creatività (sia ben inteso, corretta e ragionata) di tanti intelligenti e colti avvocati non abbia contribuito a tali mutamenti.

Sono ben consapevole che l’interesse del cliente viene assolutamente prima di tutto, ma è proprio in funzione di quell’interesse che spesso è necessario (ripeto, se necessario) proporre soluzioni forse ardite, ma comunque frutto di complessi e innovativi ragionamenti.

Addio dunque alla creatività dell’Avvocato, che analogamente a quanto troppi medici fanno quando si attengono alla cosiddetta “medicina difensiva”, non potrà più studiare soluzioni alternative, addentrarsi coraggiosamente nei faticosi meandri del diritto, proporre interpretazioni illuminate, ma dovrà solo scrutinare statisticamente quale sia l’interpretazione prevalente da parte della Cassazione e fare il proprio compitino compilativo, correndo viceversa il rischio di essere sanzionato (anche disciplinarmente?) per responsabilità professionale.

Non c’è alcun dubbio che la giurisprudenza sia la stella polare dell’Avvocato che voglia comprendere il diritto vivente ed i profili applicativi di una norma, ma seguendo il ragionamento in esame, anche l’attività defensionale sarà presto, come quella sanitaria, assoggettata a vere e proprie “linee guida”.

In tal modo il pur fondamentale principio di precauzione finisce per spostare il proprio focus primario dalla tutela cliente alla tutela del difensore.

E così, dopo la “medicina difensiva” – volta principalmente non alla salute del paziente, ma a tutelare il medico di possibili responsabilità – si arriverà alla tutto sommato analoga “difesa difensiva”, in cui l’Avvocato dovrà scegliere, fra le possibili opzioni, innanzitutto quella che non lo esponga a rischio professionale, anche se da lui non ritenuta la migliore in assoluto per il cliente.

Ad entrambe le strategie si attaglia la – a mio avviso più corretta – definizione di “condotta professionale autodifensiva” (che ho recentemente proposto in un convegno proprio in luogo di quella di “medicina difensiva”), ma entrambe costituiscono un limite gravissimo ed inaccettabile alla libertà intellettuale delle funzioni, di rilevanza costituzionale, svolte dagli avvocati e dai medici.

Provocatoriamente (per ora) è possibile immaginare uno scenario, forse non troppo futuribile, in cui sia abolita la figura dell’Avvocato, perchè tutto sommato potrebbe bastare una istanza giudiziale della parte affinchè lo stesso cancelliere, nel riceverla e prima di inoltrarla al Giudice, pigi un tasto e si faccia dare dal computer il calcolo statistico di prevalenza giurisprudenziale.

[Armando Argano - 16 marzo 2014]

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Cassazione Civile, Sezione VI – 3, Ordinanza 28 febbraio 2014 n. 4790

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente -
Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere -
Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere -
Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere -
Dott. BARRECA Giuseppina L. – Consigliere -
ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 3192-2013 proposto da: COMUNE di TORREVECCHIA TEATINA (OMISSIS), in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 63, presso lo studio dell’avvocato CROCE MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato RUSSO MARCELLO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -

contro

S.C. (OMISSIS), in proprio e nella qualità di esercente la potestà genitoriale sui minori P.G. e L., nonchè P.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SAVOIA, 80, presso lo studio dell’avvocato BIANCHI ELETTRA, rappresentati e difesi dall’avvocato PIMPINI ANTONIO, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 1006/2012 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA del 26/06/2012, depositata addì 08/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCO DE STEFANO;
udito l’Avvocato Marcello Russo, difensore del ricorrente, che si riporta agli scritti;
udito l’Avvocato Pimpini Antonio, difensore dei controricorrenti, che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo

1. E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ. e datata 17.9.13, regolarmente comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti:

“1. – Il Comune di Torrevecchia Teatina ricorre, affidandosi a cinque motivi, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con cui, in riforma della sentenza di rigetto in primo grado, è stato condannato al risarcimento del danno patito da S.C. e dai di lei figli P.M., G. e L. per il decesso del rispettivo marito e padre P.F. a seguito di un sinistro occorsogli su di una via di proprietà del ricorrente. Gli intimati resistono con controricorso.
2. – Il ricorso va trattato in camera di consiglio – ai sensi degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., essendo soggetto alla disciplina dell’art. 360-bis cod. proc. civ. – parendo potervi esservi dichiarato inammissibile.
3. – In particolare, può omettersi la disamina dei cinque complessi motivi di ricorso, involgenti comunque – anche previa contestazione della legittimità costituzionale della novella dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 – sia l’an debeatur che il quantum della condanna al risarcimento del danno, apparendo infatti preliminare la verifica dell’ammissibilità del ricorso.
Nonostante di tanto il ricorrente non dia atto in ricorso, riferiscono i controricorrenti:
- che l’odierno ricorrente ed il suo procuratore in secondo grado, avv. R.G., avevano eletto domicilio in Chieti (“presso e nello studio” del secondo) per il giudizio davanti alla Corte di appello de L’Aquila, conclusosi con la qui gravata sentenza;
- che gli appellanti stessi – odierni controricorrenti – avevano notificato nella Cancelleria della stessa Corte di appello, in data 8.10.12, la sentenza oggi gravata, anche ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione;
- che il ricorso per cassazione è stato spedito per la notifica non prima del 22.1.13.
4. – Sulla base di queste premesse di fatto e rilevato che il procuratore dell’odierno ricorrente era iscritto all’Albo di Chieti, validamente deve ritenersi effettuata la notifica della sentenza presso la Cancelleria della Corte di appello, in mancanza di elezione di domicilio del procuratore dell’appellato in L’Aquila, non rilevando a tal fine l’elezione in altro Comune dello stesso Distretto.
Infatti, le sezioni unite di questa Corte suprema – con sentenza 20 giugno 2012, n. 10143, anteriore quindi alla pubblicazione della sentenza gravata – hanno statuito che “il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 – secondo cui gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, intendendosi, in caso di mancato adempimento di detto onere, lo stesso eletto presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria adita – trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori del circondario di assegnazione dell’avvocato, come derivante dall’iscrizione al relativo ordine professionale, e, quindi, anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto all’ordine di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d’appello, ancorchè appartenente allo stesso distretto di quest’ultima”.

E nello stesso senso si è espressa, ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ., n. 1, Cass. 27 marzo 2013, n. 7658, che ha pure ribadito come la norma in esame non sia stata tacitamente abrogata per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 170 cod. proc. civ., nè delle norme che disciplinavano l’iscrizione nell’albo dei procuratori, nè dalla L. 24 febbraio 1997, n. 27, artt. 1 e 6 che, nel sopprimere la distinzione tra procuratori legali ed avvocati, non ha eliminato l’attività procuratoria.

5. – E’ pertanto valida, ai fini dell’attivazione del termine breve per l’impugnazione, la notifica della sentenza nella cancelleria del giudice adito, allorchè la controparte, assistita da avvocato che esercita il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale cui egli è assegnato, eletto domicilio in luogo diverso da quello in cui ha sede l’autorità adita: con la conseguenza che il ricorso per cassazione è stato proposto ben oltre il termine di sessanta giorni ed è irrimediabilmente tardivo, sicchè di esso va proposta al Collegio la declaratoria di inammissibilità”.

Motivi della decisione

2. Non sono state presentate conclusioni scritte, ma il ricorrente ha depositato memoria ed i difensori delle parti, versata documentazione, sono comparsi in camera di consiglio per essere ascoltati.

3. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella su trascritta relazione e di doverne fare proprie le conclusioni, non comportandone il superamento gli argomenti sviluppati nella memoria depositata dal ricorrente.

3.1. L’idoneità, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, della notifica della sentenza al procuratore che non abbia eletto domicilio nel luogo in cui ha sede l’autorità adita, è principio ormai definitivamente consolidato.

A prescindere dal fatto che esso era già stato in precedenza affermato e solo nel periodo 2009-2011 rimesso in discussione da pronunce a sezioni semplici, esso era stato consacrato – con espressa esclusione anche della configurabilità di un mutamento improvviso di giurisprudenza – con la richiamata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice 20 giugno 2012, n. 10143.

Pertanto, era onere del procuratore dell’odierno ricorrente adeguarsi tempestivamente alla riaffermazione detto principio, vuoi modificando idoneamente l’elezione di domicilio, vuoi – ove a tanto non avesse voluto indursi, allora – doverosamente verificando, finchè si è protratta l’esecuzione del suo mandato difensivo, che nella cancelleria della corte di appello non vi fosse stata alcuna notifica della sentenza.

Un tale comportamento era quindi perfettamente esigibile per la chiarezza ed univocità del dictum delle Sezioni Unite, di diversi mesi anteriore alla pubblicazione della sentenza a rischio di notifica, siccome corrispondente ad una diligenza minimale per qualunque avvocato incaricato della rappresentanza in giudizio di una parte soccombente.

Del resto, neppure l’oscillazione precedente, rimasta peraltro a livello di sezioni semplici e comunque – elemento, questo, senz’altro dirimente – cessata con l’autorevole pronuncia del giugno 2012, avrebbe potuto esimere l’avvocato dall’adozione della condotta di maggior cautela o tutela per il suo cliente: in presenza di un contrasto giurisprudenziale, è dovere professionale del difensore quello di agire, cautelativamente, in base all’interpretazione della norma, quand’anche non condivisa, che comporterebbe maggiori rischi per il suo cliente. Infatti, l’opinabilità della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo (Cass. 5 agosto 2013, n. 18612, con riaffermazione del principio già affermato da Cass., 18 luglio 2002, n. 10454: quest’ultima, più di recente, richiamata pure da Cass. 12 aprile 2013, n. 8940): sicchè, nella specie, neppure il più solido convincimento dell’avvocato sull’ingiustizia, scorrettezza o finanche illegittimità della soluzione riaffermata al massimo livello dalle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice – tanto da costituire, con tutta evidenza, presupposto per la proclamazione di un precedente consolidato, ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ. (cosa cui in effetti si è proceduto con Cass. 27 marzo 2013, n. 7658) – lo avrebbe esentato dal porre in essere comportamenti adeguati a tutelare il suo cliente, volti a prevenire le conseguenze, per lui sfavorevoli, della prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico coinvolto.

4. Neppure sono condivisibili le altre argomentazioni del ricorrente sull’invalidità della notifica 8.10.12 in cancelleria, ove si voglia prescindere dal rilievo della produzione, da parte del ricorrente stesso, della copia notificata della sentenza soltanto in prossimità della camera di consiglio (in violazione quindi del disposto dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, con la conseguente sanzione – logicamente preliminare ad ogni altra questione – dell’improcedibilità del ricorso).

4.1. In primo luogo, la notifica in cancelleria non eseguita a mani del capo dell’ufficio, ma di altra persona abilitata è pienamente valida (per insegnamento risalente, ma non più contraddetto: Cass. 24 novembre 1986, n. 6908); mentre, per principio generale, la contestazione della carenza di abilitazione a riceversi l’atto deve essere suffragata da chi la contesta con prove – quali provvedimenti interni all’ufficio, disposizioni generali in tema di mansioni et similia – documentali.

4.2. In secondo luogo, la notifica di una sentenza perfino in copia non autentica non impedisce il decorso del termine breve per l’impugnazione (Cass., ord. 19 agosto 2004, n. 16317; Cass. 22 marzo 2012, n. 4553): sicchè, a maggior ragione, non rileva che la copia notificata sia quella munita di formula esecutiva (tra molte: Cass. 21 novembre 2001, n. 14642; Cass., ord. 18 settembre 2009, n. 20193) o quella richiesta ed ottenuta per l’eventuale successivo ricorso per cassazione.
Infatti, la conformità all’originale o la provenienza dall’ufficio abilitato non vengono contestate o comunque messe in discussione con i soli rimedi previsti dall’ordinamento: e la finalità per la quale è stata rilasciata la copia non incide, qualora essa poi sia notificata al procuratore e finanche alla parte presso quest’ultimo, sulla sua istituzionale idoneità a costituire in capo al soggetto onerato dell’impugnazione la piena conoscenza dell’atto da sottoporre a riesame e, se del caso, a gravame.

4.3. In terzo luogo, neppure la carente indicazione della persona richiedente la notifica della sentenza può incidere sulla sua validità: la prescrizione dell’art. 285 cod. proc. civ., secondo cui, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, la sentenza deve essere notificata ad istanza di parte, può ritenersi adempiuta ogniqualvolta, nonostante la mancanza di apposita indicazione nella relata di notifica, non vi sia, comunque, incertezza assoluta sulla parte istante, qualora, cioè, l’identificazione di quest’ultima possa essere compiuta, senza margini di dubbio, sulla base del contenuto dell’atto notificato, circostanza che si verifica allorchè, risultando dalla relata di notifica apposta in calce alla sentenza che l’ufficiale giudiziario ha proceduto alla notifica ad istanza menzionata “come in atti”, ed essendo soltanto due le parti in causa, l’istanza di notifica della sentenza ad una delle parti non può che provenire dall’altra (Cass. 21 maggio 2004, n. 9749; Cass. 31 ottobre 2012, n. 18075).

4.4. E’ fuor di luogo, infine, ai fini della doverosa applicazione della norma processuale, la considerazione della natura pubblica del patrimonio su cui vanno a riverberarsi le conseguenze della condotta non diligente – per la vista ribadita affermazione dell’orientamento interpretativo cui egli avrebbe potuto e dovuto conformarsi, a scongiurare l’esito della soccombenza in rito, poi verificatosi – dell’avvocato dell’ente pubblico soccombente in dipendenza di essa.

V. Pertanto, ai sensi degli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ., il ricorso va dichiarato inammissibile ed il soccombente ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, tra loro in solido per l’evidente comunanza di posizione processuale.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente, in pers. del leg. rappr.nte p.t., al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, tra loro in solido, liquidate in Euro 11.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile, il 12 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2014

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