Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 19 maggio – 24 giugno 2015, n. 13106
Svolgimento del processo
1 – L’avvocato L.D.S., premesso di aver svolto un incarico stragiudiziale in favore di G.M., che glielo aveva conferito in nome proprio e della figlia allora minore V., rilevato: che aveva dovuto rinunciare a proseguire nella prestazione d’opera professionale, pur dopo aver compiuto delle attività preparatorie all’apprestamento di una citazione per i danni subiti da detta minore a seguito di incidente stradale e dopo aver redatto la citazione in giudizio che G.M. non aveva inteso sottoscrivere; rilevato altresì che V.M., raggiunta la maggiore età, gli aveva conferito autonomo incarico che aveva determinato l’inizio di un procedimento al quale aveva partecipato a sei udienze; che era receduto anche da tale incarico per il dimostrato disinteresse della cliente, evocò i predetti M. innanzi al Tribunale di Roma e chiese che gli venissero liquidati separati compensi per l’opera svolta.
G.M. si costituì negando di aver mai conferito incarico in proprio; la figlia V. concluse per la infondatezza delle domande.
2 — Il Tribunale di Roma rigettò le richieste di condanna nei confronti di G.M. e condannò la figlia di costui al pagamento di euro 1073,00 oltre interessi dalla domanda; compensò le spese tra costei ed il D.S. e pose a carico di quest’ultimo quelle attinenti a G.M..
3 – La Corte di Appello di Roma, con sentenza depositata il 24 febbraio 2009, respinse il gravame del D.S. in relazione alla ribadita domanda di liquidazione nei confronti di G.M. – giudicando che dalla corrispondenza intercorsa tra l’appellante ed il predetto non sarebbe emerso il conferimento dell’incarico in proprio – e rilevò che sarebbe stata irrilevante la redazione dell’atto di citazione in cui si facevano valere diritti risarcitori propri del genitore, in quanto non sottoscritto dal predetto; quanto poi alla posizione di V.M. accolse in parte la richiesta di liquidazione di compensi superiori a quelli riconosciuti in prime cure (condannando la predetta alla corresponsione di euro 1961,00 oltre interessi ed accessori di legge), negando peraltro che fosse stata fornita rituale prova della partecipazione del legale a tutte e sei le udienze precedenti la rinuncia al mandato, rilevando, sul punto, la inammissibilità della produzione di alcuni verbali di quel giudizio, posti a corredo dell’atto di appello.
4 – Per la cassazione di tale decisione l’avv. D.S. ha proposto ricorso, affidandolo a due motivi, illustrati da successiva memoria: i M. hanno risposto con controricorso.
Motivi della decisione
I – Con il primo motivo. vengono denunciate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697, 2702, 2712 cod. civ. in relazione all’art. 116 c.p.c. nonché un vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte romana nel non verificare la efficacia probatoria della documentazione posta a corredo della citazione prima di concludere per l’assenza del conferimento dell’incarico in proprio.
I.a — Il motivo presenta dei profili di inammissibilità ed è complessivamente infondato.
Quanto ai primi il mezzo si appunta su un’erronea valutazione della valenza dimostrativa della documentazione prodotta e quindi conduce in via primaria all’esistenza di un vizio di motivazione ma, come proposto, non è idoneo a far valere la presenza di uno dei tre profili contemplati nella formulazione dell’art. 360, I comma n.5 c.p.c., anteriore alla riforma di cui al decreto legge n. 83/2012, stante la presenza di un’argomentata esposizione delle ragioni del convincimento espressa nella gravata decisione.
Circa la congruenza della motivazione in sé giova osservare che, pur se fosse stato dimostrato che G.M. avesse formalmente speso (anche) il proprio nome nel conferimento dell’incarico, tuttavia ciò non avrebbe provato l’espletamento di autonoma attività defensionale che l’avv. D.S. vorrebbe che gli fosse remunerata: dal momento infatti che sono stati riconosciuti a carico della figlia del cliente compensi anche per l’opera stragiudiziale prestata quando la stessa era minorenne, la richiesta avanzata dal difensore avrebbe dovuto specificare e documentare la riferibilità di altre attività defensionali stragiudiziali, relative al solo G.M., espletate in epoca anteriore alla (prima) rinuncia al mandato: a riprova del fatto sta la constatazione che, pur evidenziando il ricorrente che G.M. avrebbe con ciò fatto valere il diritto al rimborso delle spese sostenute in proprio per le cure della figlia e per danni da lui stesso subiti a seguito del sinistro stradale, nessuna documentazione diretta alla quantificazione ed alla richiesta di tale “voce” è stata richiamata in ricorso, idonea a dimostrare l’espletamento di tale autonomo incarico: irrilevante è la condotta tenuta dal M. allorchè rilasciò, senza sollevare contestazioni, ricevuta della documentazione formatasi nella prima fase dell’incarico, tra cui sarebbe stata compresa una bozza di citazione approntata dal ricorrente, in cui il M. figurava agente anche in proprio, atteso che la “mancata contestazione” di detta bozza era priva di valore significativo dell’esistenza di un incarico per la liquidazione dei danni afferenti al M. e non alla figlia, in quanto la ricevuta documentava (ed era diretta a provare) non già l’effettività di un incarico bensì la corrispondenza degli atti riconsegnati a quelli illustrati nella nota di trasmissione; nessun rilievo confessorio dell’incarico conferito in proprio può altresì trarsi dalla disponibilità del M. a liquidare il dovuto al professionista, stante il fatto che il compenso andava in ogni caso corrisposto, sia che fosse riferito all’attività in favore della sola figlia sia che fosse indirizzato anche a compensare un’attività professionale svolta, in ipotesi, anche in favore del M. in proprio.
II – Con il secondo motivo – relativo alla posizione di V.M.- viene denunciata la violazione dell’art. 345 c.p.c. nonché l’omesso esame di un punto decisivo della controversia, là dove la Corte del merito ritenne tardivamente prodotti i verbali del giudizio presupposto dai quali sarebbe emersa la partecipazione del ricorrente ad un numero maggiore di udienze rispetto a quelle riconosciutegli: assume il D.S. che il divieto di nuove prove in appello si applicherebbe solo alle prove costituende; sostiene altresì che sarebbe stato impedito dall’acquisire quei verbali per il rifiuto del giudice istruttore di concedere termine per il deposito di documenti a’ sensi dell’art. 184 c.p.c., così determinando l’insorgenza della impossibilità di previa produzione, costituente eccezione del divieto di nuovi depositi documentali in appello.
Ma Il motivo è infondato: a) perché la differenza tra prove precostituite e prove costituende è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’applicazione solo alle seconde del divieto di cui all’art. 345 c.p.c. dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8203/2005; b) perché l’eventuale lesione del diritto di difesa determinata dalla mancata concessione del termine di cui all’art. 184 c.p.c. non appare aver formato oggetto di appello (circostanza questa di risolutiva importanza tanto più se fosse riscontrato quanto dedotto a foglio 19 del controricorso, secondo cui il Tribunale avrebbe motivato espressamente in ordine alla mancata concessione del predetto termine, assumendo che l’avv. D.S. non avrebbe chiesto in precedenza la concessione dei termini di cui all’art. 183, comma quinto, cpc…); c) perché non è spiegato, in ricorso, per quale ragione vi sarebbe stata una intenzionale (perché riferentisi ad attività già prestate) produzione parziale dei documenti attinenti il giudizio presupposto; d) perché in ogni caso non è stata fatta valere la violazione dell’art. 345 c.p.c. sotto il profilo della indispensabilità della documentazione (del resto neppure predicabile in astratto, perché il concetto afferisce al valore dimostrativo della documentazione in sé e non già al rilievo – qui messo in evidenza- della non frazionabilità della sua produzione nei vari gradi di giudizio).
II.b – Inconferente è poi la dedotta presunzione di veridicità delle voci di parcella in quanto la presente causa è sorta, per quanto riguarda la rappresentata V.M., proprio a contestazione di detta presunzione.
III – Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate secondo quanto indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi curo 2.700,00 di cui 200,00 per esborsi.